Parla il sassofonista prima del Pepper Legacy Tour
Qualsiasi cultore di jazz si troverebbe in difficoltà nel trovare non un aggettivo, ma bensì un superlativo per definire la musica di Art Pepper, il gigante californiano scomparso prematuramente, che ha lasciato una grande eredità salvo cadere nel dimenticatoio. Ad omaggiarne quell’inconfondibile tratto emotivo che ha marchiato il suo periodo artistico, ovvero quello del grande rientro a metà degli anni Settanta ci ha pensato Pasini, che dopo aver ben ponderato il tutto è volato negli States per riunire alcuni dei suoi musicisti più fidati. L’obiettivo? Elaborare un omaggio sincero e appassionato senza creare alcuna competizione, ma semmai accentuando una riconoscenza che forse non è stata ancora omaggiata per intero. E così Pepper Legacy, condivisa con George Cables, Bob Magnusson e Carl Burnett, andrà in giro su e giù per l’Italia a partire dalla fine di novembre con una probabile coda nella primavera del 2013. Di questo e altro ci ha parlato lo stesso Pasini, un nome che forse non vi suggerisce granché, ma che ha seminato parecchio alle sue spalle, con lodi sperticate assegnategli da assi del calibro di Phil Woods, Cedar Walton e Ray Mantilla che dopo aver incrociato il cammino del sassofonista italiano si ritrovano a benedire questa nuova e cruciale fase della sua carriera.Gaspare, cosa rappresenta Pepper e in cosa identifichi il suo tratto distintivo? | Per lui ho sempre nutrito un amore incondizionato, giù prima della chance di vederlo dal vivo a Bologna e Pescara, dove tra l’altro ho avuto la fortuna di conoscere alcuni dei personaggi chiave per lo sviluppo del jazz in Italia come Alberto Alberti e sua moglie Marcella che mi hanno onorato della loro amicizia trattandomi come un figlio. Questa idea è il frutto di un amore sviscerato per il suono di Pepper e per quel suo modo assolutamente emotivo di affrontare le ballad. Di lui si può ben notare un evoluzione nel suono assai più che nel fraseggio, caratteristica che non puoi modificare, ma bensì distillare nel corso degli anni. Negli ultimi dischi ufficiali della sua carriera ci sono delle testimonianze di una maestria tecnica inarrivabile, sviluppati tramite una strepitosa padronanza strumentale, addirittura superiore a quella degli anni Cinquanta e Sessanta, fase in cui fu maggiormente impegnato nello studio. Ma in quell’ultima appendice Art fu capace di elaborare un suono più sofferto, che arrivava direttamente dalle viscere. Era proprio la qualità del suono che era diversa, perché veniva dal cuore, e nel suo caso non penso di mistificare la realtà considerando il suo percorso di vita e le sue sofferenze personale. Questo si intuisce soprattutto nell’uso dei sovracuti, derivazione del free degli anni Sessanta. Una possibilità di espressione che in fase giovanile non aveva mai adoperato e che concretizzava con una lucidità e una velocità sconcertante, anche se, specie quando si parla di sassofonisti, non è certo la velocità che conta.
Dall’idea sulla carta a una serie di date dal vivo, per il momento solo in Italia, come ci sei arrivato? | Tramite una variegata rassegna di stati d’animo, ma anche la consapevolezza di potercela fare. Sono andato a New York per la prima volta in vita mia solo l’anno scorso, pensando di incontrare George Cables, tramite il mio amico Ray Mantilla, con cui ho suonato spesso. Ray è stato carino, mi ha procurato un appuntamento con Cables all’Iridium, dove aveva un ingaggio. Non sapevo con chi avrebbe suonato George. Gli spiegai il progetto e fu molto attento ad ascoltarmi anche se poteva legittimamente avere delle perplessità visto che rimanevo un perfetto sconosciuto. Invece incassai il primo assenso. Quella stessa sera in fondo alla sala incrociai David Williams, che stava sistemando il suo strumento. David è un altro grande amico che mi ha battezzato discograficamente con Cedar Walton in un disco per la Red Records. Ritrovare nuovamente il suo sguardo è stato emozionante: «Gaspar!» ha esclamato, buttandomi le braccia al collo. Tempo di una birra insieme e già gli stavo spiegando il mio desiderio. Lui, da sempre un entusiasta della vita, mi ha subito detto che non vedeva l’ora di farlo. Per cui ci siamo lasciati con la promessa di concretizzare il tutto entro la fine del 2012, in occasione del trentennale dalla scomparsa di Pepper. Poi sono tornato a New York per incontrare la vedova di Pepper, Laurie, che è stata molto gentile durante il nostro incontro. Mi ha messo a disposizione alcuni manoscritti originali di Art e Carl Burnett, il suo ultimo batterista, che farà parte di questa avventura. Di lui si erano perse praticamente le tracce. L’ho recuperato miracolosamente grazie a un video su Youtube in cui suonava, trenta chili dopo, ma sempre con gran swing, assieme al contrabbassista losangelino Henry Franklyn. Williams in questo primo giro non ci sarà per impegni assunti con Cedar e Piero Odorici poi sfortunatamente cancellati. Sarà comunque sostituito alla grande da Magnusson, ugualmente raggiante di far parte della ciurma.
Qual è il disco di Pepper a cui sei maggiormente legato e come intendi affrontare la sua musica? | Sono mortalmente legato a «Thursday Night At The Village Vanguard», realizzato con lo stesso Cables, George Mraz e Elvin Jones. Penso sia il distillato di quanto Pepper ha fatto e detto in precedenza: fu una serata magica e irripetibile e non solo per l’esecuzione di My Friend John, che ritengo essere il suo testamento spirituale. Un tema che ancora oggi mi fa rabbrividire, per la struttura metrica particolare e una sequenza armonica difficilissima nella sua originalità. Per il solo e per quello che fa nel corso del brano non ho superlativi adatti per esprimere cosa avverto quando lo ascolto. In questi concerti andremo a ripercorrere, a trent’anni dalla morte e dal successivo parziale oblio che lo ha avvolto, le composizioni che nell’ultima parte della carriera hanno maggiormente rappresentato e contraddistinto il linguaggio e la poetica di Pepper. Non ci saranno trucchi o effetti, né patetici tentativi di scimmiottare quello che solo lui sapeva fare. In altre parole voglio suonare la sua musica con quello stesso aspetto emozionale che probabilmente ci accomuna nel soffio. Addirittura Phil Woods, quando l’anno scorso gli scrissi per sapere cosa pensasse di questo progetto, mi rispose che avrei fatto bene a concretizzarlo perchè nessuno aveva più suonato la musica del suo amico Art. In allegato alla mail Phil mi spedì un brano, a tutt’oggi inedito, che lui stesso aveva scritto per onorarne la memoria. Mi spronò a suonarlo.
Oltre a Pepper quali sono gli altri eroi di Pasini musicista? | Alcuni grandi che ho ascoltato negli anni a partire da Phil, ovviamente. Poi Jackie McLean, Cannonball Adderley, Gato Barbieri, Steve Grossman, con cui mi è capitato di suonare spesso, ma anche Chet Baker, Bill Evans, Glenn Gould, Michel Petrucciani. Insieme agli eroi conclamati ci sono anche quelli che per motivi oscuri non hanno avuto la fortuna che avrebbero meritato. Uno di questi è Mario Costalonga, un trombettista fantastico delle mie parti, classe 1932, molto ammirato anche da Enrico Rava. Nella sua semplicità un giorno mi ha detto: «Sai Gaspare, nella vita l’importante è fare cose belle». Una massima che evidenzia una verità ineccepibile, che tutti dovremmo cercare di mettere a segno.
Sei un nome «nuovo» non sconosciuto nell’ambiente. Anzi, sul finire degli anni Ottanta avevi un disco pronto ed eri già stato ospite di Cedar Walton. Poi cos’è successo? | La vita di un uomo è sempre il frutto di varie componenti. Ho sempre avuto un sacco di interessi e forse sono stato un debole a non credere abbastanza nelle mie doti – che solo gli americani mi riconoscevano apertamente, gli italiani non l’hanno mai fatto. Nel 1991 è nato mio figlio e mi sono allontanato dal giro, anche se proprio con lui forse ho vissuto l’emozione più bella quando Elvin Jones gli regalò le bacchette alla fine del suo ultimo concerto a Umbria Jazz nel 2003: portai mio figlio apposta per vederlo, ma riuscimmo ad entrare solo per gli ultimi bis. Questo ricordo indelebile è il preludio al rovescio della medaglia, perché la mia vita è stata comunque fortunata, anche in ambito jazz. Ho suonato con tanti grandi musicisti – saltuariamente, s’intende – sebbene solo ora, ritengo di avere raggiunto la consapevolezza di poter dire cose interessanti con lo strumento. Per onorare i miei cinquant’anni ho pubblicato «Philing», la mia opera prima incisa nel lontano 1988 assieme a musicisti con i quali condividevo il palco a quei tempi: Luigi Bonafede, Piero Leveratto e Paolo Pellegatti erano una sezione ritmica affiatatissima – anzi, un vero e compiuto trio – e l’intesa, basata su un groove potente e uno swing viscerale, con loro, era immediata. Woods ha scritto le note di copertina e dopo essermi definitivamente convinto, finalmente, nel 2008, ho deciso di pubblicare il disco.
Cosa hai imparato da loro e dal jazz? | Che nel jazz i bluff non esistono; magari si può fare correggere qualche nota in studio, ma se ti esibisci sul palco e suoni per cercare di trasmettere un emozione davanti a persone che non conosci, si comprende subito se hai qualcosa da dire oppure no. Le chiacchiere stanno a zero: o ci sei o non ci sei. Con gli americani ho imparato un altro motto importante: dare sempre il meglio e il massimo. Se ognuno lo facesse, il mondo rotolerebbe con più leggerezza o, per l’appunto, con maggiore swing. Custodisco amorevolmente, per volere di Marcella, la biografia di Alberto Alberti. In calce, c’è una dedica di Pepper in cui dice che quando suonava non andava mai sul sicuro, ma cercava piuttosto di creare sempre qualcosa di nuovo e unico, mai tentato prima. Te lo cito perché mi sembra appropriato. Da parte mia, aggiungo il desiderio di voler suonare jazz con gente capace di stabilire feeling, un mood accumunante, che ti fa riconoscere l’uno con l’altro. Stabilire queste cose con musicisti che suonano bene, è una situazione ideale. Se succede si può dire di essere stati veramente privilegiati dalla vita.
A proposito, nell’attico di casa tua hai creato un jazz club di charme… | Si è trattato di un’altra circostanza fortuita della vita. Il mio fraterno amico Francesco Bearzatti parlandomi di uno strumento musicale, mi ha permesso di incontrare il propretario di questa casa padronale del 1902, che forse, senza saperlo, era nata per essere un jazz club. Al suo interno, sono passati tanti amici che mi hanno accompagnato in questi quarant’anni di vita vissuti assieme a questa musica straordinaria. Abbiamo registrato con Ares Tavolazzi, Ellade Bandini, Roberto Gatto, Danilo Rea. Quest’ultimo, con l’aiuto di Roberto Castellano, un video maker con una sensibilità particolare, essendo stato musicista, sta realizzando una serie di sensazionali video a tema. Forse tutte queste esperienze confluiranno in una etichetta discografica che avrebbe almeno un paio di ottimi capitoli viste le sessions condivise con Shawnn Monteiro ed Edy Martinez come ospiti speciali.
Pepper Legacy in tour: 30 novembre, Ferrara, Torrione jazz club | 1 dicembre, Sacile, nei pressi di Pordenone (Il volo del jazz) | 3 dicembre, Villa San Giovanni, La Sosta | 6 dicembre, Siracusa | 8 dicembre, Lamezia Terme, Teatro Umberto (Lamezia Jazz) | altre date potrebbero aggiungersi.
Vittorio Pio